Esperienze di premorte: il caso del Dottor Litvak

Cari Tutti,

questo è il secondo articolo che dedico alle esperienze di premorte (cercatevi da soli il primo, va’, se non l’avete ancora letto). Come accennavo precedentemente, ho trovato un articolo che racconta un’analisi interessantissima: il dottor Lev Litvák, psichiatra e psicologo, all’età di circa settant’anni ebbe un’esperienza di premorte, che poté indagare e raccontare con piglio prettamente scientifico. Credo sia un contributo unico all’interno di questo dibattito.

Il libro del dottor Litvak non è facilmente reperibile, ma un certo Serdjukov ha scritto un esauriente articolo in cui lo analizza e ne riporta alla lettera i passaggi fondamentali. Sono riuscito a mettere le mani su questo articolo e l’ho tradotto, credo sia la prima volta che qualcuno lo legge non in russo.

Potete scaricarlo qui sotto, gratuitamente, poi non ditemi che non vi voglio bene.

Per completezza, questi sono gli estremi dell’articolo originale, se capite il russo, potete trovarlo in rete:

Ю. М. Сердюков 2014. “Околосмертный опыт без паранаучных и эзотерических спекуляций”. Историческая психология и социология истории 1/2014 151–170.

Esperienze di premorte. Un accenno all’aldilà o uno straordinario fenomeno scientifico?

Da ragazzino mi recai in un cinema di prima visione del centro storico (bei vecchî tempi, quando il centro storico era disseminato di cinematografi e v’era ancora la distinzione tra prima visione, seconda visione e cinema parrocchiale!) per guardare un film con un’allora giovanissima Julia Roberts, Linea mortale, che mi piacque molto. In questa pellicola, un gruppo di quattro studenti di medicina decide di provocare la morte clinica di uno di loro e poi di rianimarlo, per verificare l’eventuale esistenza dell’aldilà. In particolare uno di loro, ateo, ritiene che le visioni di cui parlano alcuni pazienti sottratti alla morte dopo essere stati dichiarati deceduti per qualche istante siano dovuti al perdurare dell’attività cerebrale, non all’esistenza di una vita dopo la morte.

Locandina del film Linea mortale

A turno, i quattro si sottopongono (ovviamente di nascosto) a questo esperimento, ogni volta facendo a gara a rimanere in uno stato di arresto cardiaco e respiratorio per un periodo di tempo piú lungo rispetto al precedente compagno. Non sono cosí carogna da svelarvi il finale del film, vi dico solo che questi esperimenti al limite del lecito e dell’etico riportano in vita questioni irrisolte nel passato dei protagonisti, con elementi sovrannaturali che rischiano di sfociare nella tragedia.

Al di là del valore della pellicola, del fascino di un’ambientazione che potremmo definire “scientificamente fantastica” e dell’avvenenza dell’attrice protagonista, Linea mortale tocca un argomento medico-scientifico di grandissimo fascino, almeno per me, che all’epoca vedevo in chiave mistica. È successo davvero che certi pazienti nei quali respirazione e battito cardiaco si erano arrestati per un minuto o due siano stati riportati in vita. Molti di questi non ricordano nulla, ma alcuni raccontano storie a dir poco pittoresche.

Generalmente queste persone dicono di provare dapprima un senso di angoscia, oppressione, di trovarsi nell’oscurità piú totale. Dopo un certo periodo di tempo che non riescono a quantificare (in quelle condizioni si perde la percezione del tempo) vedono una sorta di tunnel luminoso, che percorrono, per ritrovarsi in un ambiente che si amplia e si riempie di luce. Qui si sentono felici, euforici, e hanno visioni, spesso impossibili da descrivere con parole o disegni, o cosí dicono, e non è raro che incontrino dei loro cari morti da tempo, o addirittura che vedano Gesú in persona che li accoglie.

Alcuni di questi pazienti sostengono persino di “staccarsi” dal corpo e di fluttuare nella stanza in cui si trova il loro corpo inerte, vedendo e sentendo tutto; a riprova di quanto dicono, sono in grado di ripetere alla lettera alcune parole che medici e paramedici hanno pronunciato mentre erano tecnicamente morti.

Infine, quando vengono riportati alla vita mediante le moderne tecniche di rianimazione, tutti questi pazienti immancabilmente ricordano di aver provato dolore e paura, di non voler tornare “alla vita precedente”, perché dove si trovavano provavano perfetta serenità e felicità.

A prima vista, queste descrizioni sembrerebbero dimostrare, senza ombra di dubbio, che esiste qualcosa dopo la morte. Qualcuno potrebbe anche sostenere (e istintivamente si potrebbe essere d’accordo con lui) che questi pazienti siano penetrati per un istante nel Paradiso (o quantomeno che fossero sulla soglia del Paradiso), secondo la moderna concezione cristiana: un luogo di perfetta serenità, euforia, dove tutto è talmente bello da non poter essere descritto… e in cui incontrano persone già defunte, e persino Gesú, che evidentemente è giunto a fare gli onori di casa. Quali altre prove ti servono per ammettere che esiste l’anima e che il cristianesimo corrisponde alla Verità?

Ecco, qui cominciano i problemi… Io, che sono un inguaribile pignolo e rompiscatole, dopo l’iniziale stupore mi sono chiesto: ma mai una volta che una persona riportata in vita dalla morte clinica fosse finita all’inferno? Nessuno che diceva: “Che brutto! Meno male che mi avete riportato indietro, avevo una paura!”. Persino dal punto di vista teologico (o semplicemente usando il buon senso), c’è qualcosa che non quadra: se Dio stava per premiare per l’eternità una persona, che senso ha riportarla in vita, sottoponendola ad anni di ulteriori fatiche e problemi, col rischio che faccia qualcosa che gli precluderà il ritorno al Paradiso? Sarebbe piú logico far intravvedere l’inferno a un peccatore, poi rimandarlo sulla terra, coll’implicito messaggio: “Ravvediti, altrimenti è qui che finirai”. Eppure, chi fa un’esperienza del genere non parla mai di demonî, fuoco, stridore di denti, terrore, indicibile sofferenza.

Queste esperienze vengono comunemente chiamate “near-death experiences” in inglese, in italiano spesso si usa l’espressione “esperienze di pre-morte” (con o senza il trattino). Il fenomeno è stato trattato in maniera scientifica per la prima volta da Raymond Moody (classe 1944, vivente), medico e psicologo statunitense che nel 1975 pubblicò La vita oltre la vita, un saggio tradotto in molte lingue che ha venduto oltre 20 milioni di copie in ogni angolo del pianeta. In questo lavoro si descrivono numerose esperienze di premorte e, seppure (o forse proprio perché) l’autore ammetta di non avere le risposte a tanti interrogativi, il libro è stato accolto da religiosi, spirituali e spiritisti come la dimostrazione scientifica dell’esistenza di qualcosa dopo la morte.

A essere onesti, Moody, pur dichiarandosi credente, affronta la premorte in maniera scientifica e molti anni dopo, nel 1999, ha pubblicato un secondo libro sull’argomento, L’ultimo sorriso, in cui raccoglie tutte le osservazioni che gli editori avevano sistematicamente escluso dalle pubblicazioni perché non erano sufficientemente “sensazionalistiche”. In altre parole, Moody non ha mai detto che le manifestazioni della premorte abbiano alcunché di sovrannaturale, ma apportando qualche taglio qua e là e non mancando di sottolineare che l’autore è un uomo di scienza che ha raccolto un gran numero di casi in maniera scientifica, si può facilmente far passare il messaggio che la scienza abbia trovato Dio, o quantomeno l’oltretomba.

Il dottor Raymond Moody (Di Ehabich – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=56807961)

Voglio essere schietto fin da súbito: questi affascinanti fenomeni non hanno necessariamente alcunché di spirituale o si trascendentale. Si possono spiegare, sulla base delle conoscenze attuali: la morte clinica, ovvero lo stadio in cui respirazione e circolazione sanguigna si arrestano, precede la morte cerebrale, questa davvero irreversibile. Il cervello continua a sopravvivere per qualche minuto, fino a quando il mancato apporto di ossigeno ne provoca il decesso. In quei minuti, a causa dell’ipossia (per l’appunto la carenza di ossigeno), sono possibili visioni e fenomeni strani. Non è un caso che alcuni piloti dell’aviazione abbiano detto che, nelle simulazioni, talvolta erano rimasti senza ossigeno per qualche istante e avevano provato esperienze simili a quelle di premorte. In altre parole: non si tratterebbe di visioni mistiche, bensí oniriche, o per dirla in maniera brusca, il cervello è andato in tilt e dà di matto.

Ma allora come mai si vedono dei morti e persino Gesú? Ecco, la figura di Gesú provoca dei problemi non indifferenti… Ma ai credenti, non agli scienziati. I primi casi studiati scientificamente ebbero luogo in Occidente, in ambienti tradizionalmente permeati dal cristianesimo, e molti dei pazienti rianimati si dichiarava cristiano. Molti di loro hanno detto di aver visto Gesú. Successivamente, sono stati studiati casi analoghi avvenuti in Asia o in altre zone geografiche. E guarda un po’? Le persone rianimate dicevano di aver visto Buddha, o Shiva, o altre divinità alla base della loro cultura. Sembrerebbe, pertanto, che il cervello che sta dando i numeri, nel disperato tentativo di contrastare la morte imminente, faccia riaffiorare le immagini piú care, piú amate dal moribondo. In quest’ottica, sia la divinità adorata che certi parenti o amici defunti non paiono piú visioni tanto sconcertanti.

A scanso di equivoci: non sto affermando che non esistano l’anima, l’aldilà, Dio o qualsiasi espressione di trascendentalità. Ognuno creda pure in ciò che vuole. Solo, non attribuiamo significati errati a eventi spiegabili scientificamente.

Potrei facilmente fare una lunga carrellata di esempî e racconti, citare studiosi e statistiche… Ma forse sarei noioso, e in fondo potete tutti andare a documentarvi quantomeno su Wikipedia. In questa sede vorrei dare un piccolissimo contributo originale, di cui forse nessuno di voi, almeno qui in Italia, è a conoscenza. Vorrei proporvi un lavoro scientifico pubblicato in Russia, ad oggi inedito nel nostro Paese.

Il dottor Lev Moiséevič Litvák (1938-vivente), oggi pensionato, è stato sia psichiatra che psicologo, nonché autore di svariati libri e rispettato membro della comunità medica prima in Unione Sovietica, poi in Russia, infine in Israele, dove si è trasferito. Costui ebbe un’esperienza di premorte in prima persona che, ripresosi dal trauma, a lungo studiò e documentò, scrivendo un libro intitolato Постижение смерти и природа психоза: опыт самонаблюдения и психоневрологического исследования, che come avrete capito significa Comprensione della morte e natura della psicosi: esperienza di auto-osservazione e di indagine psiconeurologica. Il volume venne pubblicato in russo nel 2004 a Gerusalemme. È unico, da che ne so, perché è l’unica opera scientifica sull’argomento scritta da uno psichiatra che non si è limitato a raccogliere ed esaminare prove e testimonianze, ma che ha personalmente avuto un’esperienza di premorte.

Il dottor Litvak. Fonte: abuandria.livejournal

Ho cercato il libro. Purtroppo, non sembra essere facile da reperire: l’ho trovato disponibile in alcune biblioteche in Russia, ma sarebbe un tantino scomodo prendere un paio di aeroplani e recarmi in loco solo per consultarlo, peraltro dubito che mi consentirebbero di portarlo a casa. E-bay non aiutava (c’erano persino alcuni libri di Litvak, ma non questo), ho trovato solo un sito che era disposto a vendermelo (pare che il libro sia fuori commercio), alla ragionevole cifra di 2.000 rubli[1], ma purtroppo, per i ben noti eventi politici degli ultimi anni, la mia carta di credito non funziona piú in Russia e quindi sarebbe difficile per me effettuare l’acquisto.

Sconsolato, stavo per arrendermi… Quando ho trovato un lungo e dettagliato articolo di un certo Jurij Michajlovič Serdjukov, professore di filosofia, sociologia e diritto, che riassume e commenta dettagliatamente il libro di Litvak! Ovviamente me lo sono procurato e ho deciso di immolare parte del mio sempre troppo esiguo tempo libero per tradurlo. Credo sia un contributo in qualche maniera significativo, perché inedito in Italia (e verosimilmente lo rimarrà in sempiterno). Ve lo proporrò integralmente, tempo di finire la traduzione e curarla a dovere, sempre su queste bande. Intanto vi svelo una cosa (ovvero faccio uno “spoiler”, per usare un termine odierno che mi ha sempre un tantino irritato): Litvak nega che vi sia alcun contenuto trascendentale nelle esperienze di premorte. L’articolo di Serdjukov si conclude infatti con queste testuali parole: “È assolutamente chiaro che il livello attuale di sviluppo della scienza rende superfluo ipotizzare delle cause sovrannaturali delle esperienze di premorte e consente di scartare i contesti religiosi, pseudoscientifici ed esoterici.”

Abbiate pazienza, lavoro tanto, tengo famiglia e per giunta oggi ho dovuto lavare i pavimenti, prima che si formasse una crosta di interesse geologico, ma vi prometto che mi rifarò vivo appena la traduzione sarà stata ultimata e limata. Non cambiate canale.


[1] No, non vi dico a quanto equivale in euro. Scopritelo da soli.

Dio che cappella!

Cari Tutti,

no, no, vi giuro, nessuna imprecazione e nessun contenuto moralmente discutibile! Capirete presto…

Chi mi conosce sa che vado matto per l’arte e la storia e adoro i posti “autentici e poco contaminati”. Secondo me qualsiasi scemotto che abbia i soldi per comprare il biglietto può andare a Roma a guardare il Colosseo o a Milano e visitare il Duomo. Cose che ho fatto anche io, per carità, ma in fondo questi posti “grandiosi” si rivelano sempre, almeno in parte, delle delusioni: troppa gente, troppa attesa, scarsa capacità di goderseli, spesso nessuno che ti sappia spiegare i mille dettagli che rilevi e che vorresti approfondire.

Molto meglio, a mio avviso, cercare una chiesetta antica sull’Appennino, che magari richiede anche un’escursione a piedi perché la strada non arriva fino al sagrato, o un borghetto antico dove i quattro gatti che ci vivono sono i primi ad accoglierti con calore e a raccontarti aneddoti di quando il loro bisnonno ha comprato quella casetta e l’ha restaurata cólle sue mani…

Talvolta, per visitare posti insoliti, ho fatto anche una discreta fatica. Per vedere dei bellissimi affreschi medievali in una chiesetta di Civate (provincia di Lecco) ho risalito a piedi un’intera collina attraversando un bosco, peraltro sotto il sole estivo (e soffro pure di vertigini). Un’altra volta mi sono introdotto in un acquedotto romano e ne ho percorso alcune centinaia di metri coll’acqua alle caviglie e in compagnia di ragnetti e quant’altro.

V’è però un posto dove, ve lo confesso, non mi spingerei: è la cappella che mi ha suggerito il titolo di questo articolo. Guardatela:

Ingresso della cappella di Abuna Yemata Guh, fonte: https://thebrainchamber.com/abuna-yemata-guh-church/

L’ho scoperta guardando un video su YouTube, che riporto qui di séguito:

La cappella di Abuna Yemata Guh si trova in Etiopia, è altomedievale, quindi estremamente antica, ed è scavata nella roccia ad un’altezza di oltre 200 metri. Ci si può arrivare soltanto scalandola a piedi, aggrappandosi nei punti giusti, e l’ultimo pezzetto prima di accedere all’ingresso è particolarmente stretto, con un dirupo laterale che significa morte certa se solo metti un piede in fallo. Nel video si vede persino una madre che sale la parete rocciosa col proprio bambino in fasce legato sulla schiena (follia, ma a quanto pare nessuno è precipitato).

L’interno è MERAVIGLIOSO. Quegli affreschi corrispondono perfettamente alla mia idea di arte e di spiritualità (qualunque cosa significhi questo termine). Semmai dovessi entrarci (ma non lo farò mai), passerei ore ad ammirarli e fotografarli da ogni punto di vista. La posizione estremamente scomoda di questo luogo di culto (tutt’ora officiato) l’ha resa immune alle guerre e alle tante calamità che hanno afflitto l’Africa, e l’Etiopia nello specifico, nel córso dell’ultimo millennio e mezzo. Speriamo possa rimanere intatta per almeno altrettanti secoli.

Inverosimili coincidenze

Cari Tutti,

un giorno mi trovo in una ridente località dei colli pescaresi, quando a un tratto per strada odo la frase: “Io la conosco!”. Nemmeno mi giro: abito a 400 km da Pescara, ci vado giusto ogni tanto a trovare amici, chi mai può conoscermi? Ma la voce, imperterrita, continua: “L’ho riconosciuta!”

La seconda volta mi giro. A parlare è un giovincello sui 18-20 anni, che non conosco. Il ragazzo mi spiega di avermi visto a Bologna qualche mese prima, in occasione della Fiera del Libro per Ragazzi. Avevo lavorato come interprete all’incontro cólla scrittrice britannica Michelle Paver, tra il pubblico v’era anche una scolaresca abruzzese in gita scolastica e, guarda un po’, quel ragazzo era lí e mi aveva visto. Rimanemmo anche in contatto per un po’, era un ragazzo simpatico e le circostanze del nostro incontro erano state tali da renderlo piacevolmente insolito.

È un dato di fatto che talvolta hanno luogo inverosimili concorsi di circostanze, di quelli che, se non l’avessi visto coi tuoi occhî, magari non ci crederesti nemmeno. (Per inciso, questa è una delle ragioni per cui mi stanno sullo stomaco i complottisti, sempre in cerca di coincidenze a loro dire “impossibili”, ma questo è un altro discorso). Tuttavia, quella di cui vi parlerò oggi è una circostanza ancora piú clamorosa di quella che vissi sui colli pescaresi.

Nel 1985, al termine della stagione balneare, i bagnini di New Orleans decisero di organizzare una grande festa al New Orleans Recreation Department Center. Che cosa si festeggiava? Un’annata straordinaria! Durante tutta l’estate, non era annegato nemmeno un bagnante. Che risultato straordinario! Lode alla vostra vigilanza continua, alla vostra grande professionalità.

Al termine dell’evento, nella piscina venne rinvenuto il corpo del trentunenne Jerome Moody. Il giovane era vestito da capo a piedi e l’autopsia confermò che il decesso era avvenuto per annegamento. Durante la festa erano in regolare servizio quattro bagnini, e circa la metà del 200 ospiti era di professione bagnino, quindi se anche non era in servizio, sapeva benissimo come intervenire in caso di emergenza.

Ovviamente questa tragedia, del tutto gratuita e dalla quale nessuno aveva nulla da guadagnare, rattristò tutti. Potremmo interpretarla come una barzelletta, farci quattro grasse risate (tanto se non conoscevamo il povero Moody, che ci importa, giusto?) e poi pensare ad altro. Oppure potremmo ricavarne una piccola lezione: non solo la prudenza non è mai troppa, ma per quanta prudenza tu possa avere, qualcosa, inevitabilmente, ti sfuggirà sempre.

Quante volte ho sentito dire: “I vaccini non funzionano perché mio cugino era vaccinato ma si è ammalato lo stesso” oppure: “Io non metto le cinture di sicurezza in macchina, perché ci sono casi in cui non aiutano”. Io direi, invece: vaccínati, ma in ogni caso làvati le mani, non avvicinarti a persone che sospetti essere malate e tieniti controllato; allaccia la cintura di sicurezza ma continua a guidare entro i limiti di velocità e a rispettare ogni norma del codice della strada. Poi, se uno deve avere sfiga, pace, è successo a Moody, è successo e succederà a tanti altri, ma almeno potrai dire di aver fatto tutto il possibile.

Bibliografia

Se volete, potete facilmente avere conferma della vicenda dai quotidiani dell’epoca. Ve ne riporto soltanto due qui di séguito:

https://www.upi.com/amp/Archives/1985/08/02/Man-drowns-at-lifeguard-party/3367491803200/

https://www.nytimes.com/1985/08/02/us/victim-at-lifeguards-party.html

Una figuraccia artistica

Cari Tutti,

oggi ho deciso di fare una divagazione del tutto frivola, inutile, tanto per fare. Ogni tanto concederete pure anche a me di farlo, non si può sempre parlare di pseudomedicine, dittatori feroci e altri fulgidi esempî di idiozia umana!

Vi vorrei raccontare la mia piú grossa figuraccia, almeno per quanto mi ricordi. Se poi volete, raccontatemene qualcuna anche voi… Ma non qui, come sapete il mio blog non accetta i commenti.

Mi diletto di fotografia. Non che sia un artista eccelso, ma ogni tanto, onestamente, ho realizzato qualche scatto di un certo livello, e in generale mi piace andare a zonzo per una città e immortalare le cose belle che vi trovo. Da anni faccio parte di un circolo fotografico, con cui in passato, prima che venisse la pandemia, ogni tanto facevo delle gitarelle per visitare mostre fotografiche o eventi affini.

Correva l’anno 2018, quando mi trovai in una di queste gite a Venezia. Avendo qualche ora libera, pensai di andare alla scoperta di angoletti pittoreschi da fotografare. Venezia non è perfetta per questo scopo? Perdersi è facilissimo, ma ovunque tu finisca, ci sarà qualcosa di unico, di suggestivo che merita la pena di essere fotografato. Fu cosí anche quella mattinata. Mi ritrovai, per puro caso, davanti a un complesso ebraico, credo sinagoga e cimitero. Interessante. Sfoderai l’apparecchio fotografico e mi misi a pensare a quali scorci rappresentare. Ecco che in quel momento giunge una comitiva di ebrei.

Che fossero ebrei, era palese: tutti gli uomini, compresi i ragazzini, indossavano la kippah, e si stavano recando in direzione della sinagoga. Eppoi, scusatemi, a costo di sembrare antisemita, avevano l’aria di essere ebrei. Erano in gruppo, andavano in sinagoga con copricapi ebrei, in una città nota da tempo immemore per la propria comunità ebraica.

Mi venne un’idea. Volevo fotografare quei luoghi con qualcuno di quegli individui cosí acconciati di fronte. Pensavo che sarebbe stato molto pittoresco. Ebrei nei luoghi degli ebrei. Già cominciavo a pensare a come regolare il contrasto, a quali dettagli privilegiare…

M’avvicinai e chiesi: “Scusate, volevo fare delle foto…” Gentilmente, si spostarono per consentirmi di fotografare l’edificio. “No, beh, vi dispiacerebbe mettervi qui davanti mentre scatto la foto…”

“Questo è un funerale”. Rispose qualcuno lapidario. Riuscii appena a dire: “Perdonatemi tantissimo” e mi defilai prontamente. Ancora oggi, ogni volta che ci ripenso mi vergogno un po’. E alla fine non scattai alcuna fotografia di quel complesso, di cui peraltro nemmeno ricordo il nome. Forse è meglio cosí.

Guy Thorne

ovvero:quando una storia caduta nell’oblio merita di rimanere nell’oblio

Cari Tutti,

anni fa fui l’interprete di un giovane scrittore statunitense, Paul Collins, che aveva scritto un libro intitolato La follia di Barnard. L’autore era andato in giro per biblioteche e altri posti per ricreare le storie di tredici persone che “non avevano cambiato il mondo”: persone famosissime in vita, completamente dimenticate appena morte. C’erano Barnard, artista celebratissimo e divenuto ricchissimo, di cui si è perso tutto (non ne rimane una sola opera, e persino la sua eccentrica casa è stata smantellata), un signore che aveva un’idea molto bizzarra su come curare qualsiasi malattia col colore blu, un altro che ha inventato una lingua artificiale chiamata Sol Re Sol che non ha mai attecchito… Una lettura affascinante, cercate il libro nel catalogo di Adelphi. Oppure prendetelo in prestito in biblioteca. Oppure rubatelo. Insomma, procuratevelo e leggetevelo.

Collins diceva che era affascinante cercare, sepolte tra le scartoffie polverose, storie che nessuno conosceva piú, ma che meritavano di essere ricordate. Io, da amante della storia locale, non posso che essere d’accordo con lui. Tuttavia, un altro scrittore che conobbi lo stesso anno, l’ex sovietico Jurij Družnikov, che aveva passato tanto tempo a lavorare negli archivî della società degli scrittori dell’URSS, quando gli raccontai questa storia sorrise e disse: “Tu non sai quanta immondizia si trovi in un archivio o in una biblioteca! Per il 90% è bene che resti lí e che nessuno se ne ricordi”. Presumo che se vi domandassi chi fosse Guy Thorne, nessuno di voi saprebbe rispondere. Recentemente, per puro caso ho scoperto l’esistenza di questo scrittore inglese vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo e sono rimasto sorpreso: pare che all’epoca fosse popolarissimo, una sorta di Stephen King o Ken Follett tardo-vittoriano, ma che poco tempo dopo la sua morte sia stato dimenticato impietosamente. Incuriosito, mi sono chiesto: meritava davvero l’oblio? Questo Guy Thorne può essere una piacevole sorpresa da riportare alla ribalta, per la gioia di Paul Collins, oppure le sue opere dànno ragione a Jurij Družnikov? Cerchiamo di vederlo assieme.

Guy Thorne. Non trovate che assomigli al ragionier Ugo Fantozzi da giovane?

Anzitutto, ho cercato notizie su di lui, ma con scarso successo. Ho trovato una sola fotografia e poche notizie bibliografiche: il suo vero nome era Cyril Arthur Edward Ranger Gull, nacque nel 1875 (da qualche parte in Inghilterra, non si sa nemmeno dove), morí a Londra all’età di 47 anni (che poi è la stessa età che ho io adesso, ma non sono superstizioso e quindi non mi tocco), pare che amasse molto bere, sparare, leggere la letteratura francese, e si conosce l’indirizzo di casa sua in Cornovaglia. Non si sa nulla di alcuna storia d’amore, di figli o di iniziative sociali, militari o filantropiche di rilievo.

Persino il suo necrologio, pubblicato il 10 gennaio 1923, è sorprendentemente stringato:

[Traduzione:

MORTO ROMANZIERE

LONDRA, 10 gennaio – Guy Thorne, romanziere, il cui libro piú noto è “When It Was Dark”, è morto ieri notte.]

Nonostante sia vissuto relativamente poco, pare che abbia pubblicato almeno 125 romanzi, soprattutto storie dell’orrore o gotiche. Avete letto bene: centoventicinque. Avendo cominciato a circa 22-23 anni, significa che mediamente pubblicava 5 romanzi l’anno. D’accordo che all’epoca non c’era la televisione, ma sospetto che non avesse una vita sociale movimentatissima. E anche cosí, è impressionante.

Ho trovato un elenco parziale delle sue opere in inglese. Nessuna mi diceva nulla. Ho cercato in italiano, ma non sembra che sia stato tradotto nulla nell’idioma di Dante, o se lo è stato, ne è scomparsa persino la memoria. Ho trovato un suo romanzo tradotto in spagnolo e un paio di annunci su Ebay che vendevano suoi vecchî libri. Basta.

Tuttavia, da poco il suo lavoro piú noto e apprezzato, When it was dark, edito nel 1904, è diventato disponibile gratuitamente, dato che sono scaduti i diritti d’autore, per cui sono riuscito a scaricarlo in PDF. Voglio leggerlo con attenzione e poi magari lo recensirò. Se ne vale la pena, s’intende. E se riuscirò a raggiungere la quarta di copertina, magari è un mattone e mi passa la voglia.

Cosa so di questo libro? Fu un best seller di prima grandezza. Pensate che vendette oltre mezzo milione di copie, in un’epoca in cui ancora molte persone erano analfabete, e che dal 1904 al 1909 ebbe non meno di una decina di ristampe. Realizzarono persino un film muto su questo libro, purtroppo andato perduto, che annoverava nel cast alcuni degli attori inglesi piú ammirati dell’epoca (non sto a citarli, tanto anche di loro s’è persa memoria). Il vescovo di Londra in persona lo lodò in un’omelia tenuta nell’Abbazia di Westminster, definendolo una pregiata opera letteraria…

Solo che pregiato, con ogni probabilità, non lo è proprio. Lo so che non si dovrebbe parlare di un libro che non si è ancora letto, ma ho trovato alcune recensioni abbastanza dettagliate da poter quanto meno criticare la trama, se non lo stile e la lingua. Il voluminoso tomo (oltre 400 pagine… Ma come riusciva a scrivere 5 romanzi di tali dimensioni ogni anno?) racconta una storia inverosimile intrisa di misticismo, delirî che vorrebbero inneggiare al cristianesimo e antisemitismo a gogò. Una porcata, insomma.

L’idea alla base del romanzo è la seguente: qualcuno in Palestina trova un sepolcro, con un masso davanti, e dentro c’è il corpo di Gesú. Questo smentirebbe l’idea che Cristo sia risorto, il che ovviamente priverebbe di qualsivoglia fondamento la religione cristiana.

Fino a questo punto l’idea sarebbe anche buona. Sviluppata diversamente, tra dubbî e proteste, fede e ragione, questa stessa idea ha generato Il vangelo di Giuda di Simon Mawer, un bel romanzo che consiglio vivamente a tutti. Purtroppo però Thorne decide invece di dare un messaggio cristiano inverosimile: non appena i cristiani vengono a sapere che Gesú non sarebbe risorto, e che quindi la loro religione sarebbe falsa, diventano tutti dei delinquenti, vanno in giro a commettere ogni nefandezza. L’assenza di Dio, suggerisce l’autore, priva l’umanità di qualsivoglia freno inibitorio, di qualsiasi morale. Alla fine si scopre che il ritrovamento archeologico è un complotto ordito da degli ebrei (i quali ovviamente devono essere cattivi, perché Guy Thorne era un bravo cristiano), quindi i cristiani riprendono a comportarsi da bravi cristiani.

Che ve ne sembra? Una bella porcata, vero? Un famoso pensatore scettico ed ateo, Christopher Hitchens, commentò definendolo “un romanzo spazzatura che fa sembrare Il codice Da Vinci o la serie Left Behind al pari di Proust o Balzac o George Eliot”.

In effetti, persino Brian di Nazareth mi sembra piú verosimile di quanto narra il buon Thorne. Intendiamoci, non intendo criticare la religione (non in questa sede, quanto meno) o invitare nessuno a smettere di credere in Gesú, ma pensare che un uomo, nel momento in cui non è o non è piú cristiano, sia necessariamente un criminale privo di etica è una palese sciocchezza. Ci sono moltissimi milioni di persone in India, in Cina, in Giappone… e persino in Italia che, pur non credendo in Gesú, si comportano onestamente. E prima che nascesse il cristianesimo, l’umanità aveva già percorso migliaia di anni di storia, costruendo meraviglie, facendo scoperte scientifiche, creando capolavori d’arte, e mi rifiuto di pensare che fossero tutti dei delinquenti in attesa che s’incarnasse Iddio per poter diventare buoni e cominciare a vivere rettamente.

Ho letto tante opere scritte da persone religiose, in cui si dà un messaggio cristiano. Alcune di queste sono molto belle. Quando invece si scade nella propaganda e nel razzismo da quattro soldi, forse è il caso di convenire con Jurij Družnikov e lasciare che certi libri s’impolverino e marciscano in soffitte e cantine.

L’alternativa del diavoloOvvero: l’umanità non impara mai la lezione

Ovvero: l’umanità non impara mai la lezione

Cari Tutti,

anni fa ho avuto l’onore di conoscere professionalmente Frederick Forsyth, di cui fui interprete in occasione del Festivaletteratura di Mantova. Per chi non lo conoscesse, si tratta di uno dei piú famosi scrittori al mondo, da decennî scrive bellissimi romanzi, generalmente spy stories, trame e sottotrame molto complesse condite grande perizia tecnica, soprattutto nelle descrizioni di armamenti, veicoli (in gioventú fu anche pilota della RAF) e rapporti occulti della politica.

In un’intervista, un giornalista gli chiese perché avesse smesso di scrivere libri sulla Guerra Fredda. Ricordo bene la risposta del signor Forsyth.

“Io scrivo storie su eventi di attualità, che riguardano, diciamo, gli ultimi due o tre anni. La Guerra Fredda era attuale vent’anni fa, per questo non ne parlo piú, mentre nell’ultimo libro parlo del traffico di cocaina”. L’ultimo romanzo, appena uscito in Italia, era intitolato Il Cobra.

Il caso vuole che poco tempo fa sia passato davanti a un book crossing, ovvero uno scaffale nel centro commerciale vicino a casa dove chiunque può lasciare dei libri affinché vengano letti da altri, o prelevarne qualcuno lasciato dai precedenti visitatori. In mezzo a trattati medici di metà Novecento, edizioni dei Vangeli degli anni Ottanta e qualche córso di inglese che oggi può essere studiato da un filologo, c’era L’alternativa del diavolo di Frederick Forsyth. Ovviamente me ne sono appropriato e l’ho letto, con grande soddisfazione: è una storia di spionaggio e macchinazioni politiche di ampio respiro, avvincente e con un notevole colpo di scena (che mi ha spiazzato del tutto) letteralmente nell’ultima pagina. Ma ho provato anche una certa inquietudine.

Mi spiego: la storia è gestita e narrata magistralmente, con Forsyth si va sul sicuro, ma è angosciantemente d’attualità, malgrado il libro sia stato scritto nel 1979 e si ambienti nel 1982. Clima da Guerra Fredda, quello in cui sono cresciuto. C’è il forte rischio che scoppi una guerra nucleare perché in Unione Sovietica i “falchi” vogliono sfruttare una crisi del grano (vi ricorda qualcosa?) e il conseguente malumore della popolazione per dichiarare guerra all’Occidente e conquistare tutta l’Europa. Nel frattempo, al Cremlino siede un leader supremo dittatoriale, un freddo calcolatore di nome Rudin (cosí sinistramente simile a “Putin”…). Nel bel mezzo della storia c’è pure un disastro ecologico legato a un’enorme petroliera (non facciamoci mancare l’ecologia e i combustibili fossili). Ma la cosa piú inquietante di tutte è che la vicenda viene scatenata da un pugno di terroristi/patrioti (a seconda dei punti di vista) ucraini, che decidono di ribellarsi all’Unione Sovietica perché sognano un’Ucraina indipendente e libera, e che muoiono urlando (in ucraino): “L’Ucraina è ancora viva”.

Questo romanzo è stato scritto oltre quarant’anni fa. Non trovate che sia inquietante come quasi tutto quello che racconta Forsyth stia effettivamente succedendo o minacci di succedere adesso? Se fossi un complottista (specie animale che considero appartenere a un livello inferiore della scala evolutiva, e che apertamente disprezzo), potrei dire che “già allora c’era qualcuno che sapeva”.

Molti mi hanno chiesto, nell’ultimo anno e mezzo, che cosa penso dell’attuale guerra in Ucraina. Io che amo la Russia (la sua cultura, la sua lingua, la sua letteratura, ma non la sua politica) sto soffrendo non poco. Ma soprattutto, soffro nel vedere che la Guerra Fredda è tornata prepotentemente. Certo, oggi non ci dicono piú che in Russia i comunisti mangiano i bambini (un paio di volte l’ho sentito, da bambino), e oggi la propaganda si fa soprattutto sui blog e sui social media anziché in televisione, ma a parte questi aspetti cosmetici, non è cambiato tanto. Ciò detto, leggete pure L’alternativa del diavolo, ne vale la pena. E se continua cosí, Forsyth può anche andare in pensione e ristampare i suoi vecchî romanzi, anziché scriverne di nuovi.

Lo scudetto contestato e il vetusto farmacista

(con un cameo di mio padre)

Cari Tutti,

non scrivo su queste bande da una vita, ma comprendetemi… anzi, no, non state nemmeno a sforzarvi di comprendermi: questo è un blog, scrivo quando mi pare e piace, se non vi va bene, accendete la televisione e guardate un reality show, va’.

Ciò detto, oggi scriverò un articolo del tutto insolito per i miei parametri. Parlerò di calcio. Oddio, io che parlo di calcio? Io che mi sono disintossicato ormai da tanti anni: una volta seguivo le vicende del pallone ed ero appassionato, poi, il caso ha voluto che svolgessi il servizio civile nell’unico archivio sul tifo e sugli ultrà che esiste (o almeno esisteva) in Italia all’epoca. Per carità, sono stato bene, tutta brava gente… Però tutti i giorni sentivo storie di tifosi intemperanti, cori razzisti, scontri tra le tifoserie… E a una un certo punto, mi sono detto che se per guardare una partita di un’ora e mezza dobbiamo sorbirci tutto quel contorno, forse non ne vale la pena. Fu una sorta di vaccinazione, da allora guardo solo ogni tanto qualche partita importante della nazionale italiana. Il che significa, viste le non esaltanti prestazioni recenti degli Azzurri, che da qualche anno non ne guardo proprio.

Eppure questa storia ha a che fare coll’idiozia umana e ha una componente autobiografica, pertanto mi è venuta voglia di raccontarvela. Ma andiamo con ordine, ci vuole una breve introduzione storica.

Oggi il Bologna non è certo una squadra di punta, ma negli anni Sessanta era “uno squadrone che tremare il mondo fa”. Rivaleggiava cólle squadre piú titolate d’Italia e riuscí pure a portarsi a casa lo scudetto del 1963/64, l’unico mai finito con uno spareggio, rifilando un 2 a 0 all’Inter sul campo neutro di Roma. Mio padre quell’anno andò spesso allo stadio e ricordava con affetto “l’anno dello scudetto”.

A dire il vero, l’espressione “anno dello scudetto” è inesatta, dato che si trattava del settimo tricolore conquistato dalla compagine petroniana (l’ottavo, ahimè, è ancora da venire), ma il penultimo era stato nel 1941 e mio padre era del 1943, pertanto lo scudetto del 1964 era anche l’unico vissuto in prima persona, il resto era eredità storica. Un’eredità peraltro non da poco: negli anni Venti e Trenta il Bologna aveva vinto un numero di scudetti quasi pari a quelli della Juventus. Il primo di questi titoli nazionali era stato conquistato nel 1925.

Ed ecco che arriviamo alla storia che vi voglio raccontare. Nel 1925 non c’era ancora un campionato italiano a girone unico (venne introdotto nel 1929): c’era una Lega Nord (nessuna relazione coi politici attuali) e una Lega Sud. Le vincenti delle due leghe si scontravano nella finale scudetto, ma visto che quasi tutte le squadre migliori erano al nord, di fatto la “finale vera” era la finale della Lega Nord, chi vinceva quella gara poi andava a fare una passeggiata per espletare la formalità prima di appuntarsi lo scudetto sul petto.

In quel 1925 le prime due classificate nella Lega Nord erano Genoa e Bologna. Il Genoa era la squadra piú titolata d’Italia, ben nove allori (quanta acqua è passata sotto i ponti da allora!) ed era la superfavorita. Il Bologna, tuttavia, si rivelò un osso durissimo. La formula del torneo prevedeva una gara a Bologna e una a Genova. In entrambi i casi vinse la squadra in trasferta per 2 reti a 1. A quel punto, si decise di disputare uno spareggio sul campo neutro di Milano. E qui arriviamo al clou.

Lo spareggio di Milano del 7 giugno 1925

Da allora è passato quasi un secolo, dovete pensare che il mondo del calcio era molto diverso da quello di oggi: non c’erano le telecronache, gli ingaggi multimilionarî, le sponsorizzazioni… Ma alcune cose erano identiche ad oggi, in particolare la litigiosità dei tifosi. E di tifosi, nel vecchio campo di giuoco di Viale Lombardia a Milano, ne accorsero tanti, ma talmente tanti che l’arbitro fu tentato di rimandare la partita: i sostenitori delle due squadre avevano occupato per intero non soltanto gli spalti, ma persino il prato, fino a ridosso del campo di giuoco. In effetti, oggi una partita non verrebbe mai disputata in condizioni di sicurezza tanto precarie. Con siffatte premesse, che cosa mai poteva andare storto?

Inizialmente, andò tutto storto per il Bologna, che si ritrovò sotto per due reti a zero. Poi, scoppiò il casus belli: il Bologna segnò un “goal fantasma”, come si direbbe oggi: il pallone pare sia entrato in porta, ma l’arbitro, nella confusione e privo del supporto del VAR, ebbe l’impressione che il portiere genoano l’avesse deviato sul fondo, quindi decretò un calcio d’angolo. Non sapremo mai con certezza che cosa sia capitato, possiamo solo fare una panoramica sulle opinioni dei presenti: quasi tutti i giornalisti dell’epoca dicono che fosse goal e anche i guardalinee pare propendessero per questa interpretazione (una sola testata, il Guerin Sportivo, affermò il contrario).

Se ci fu incertezza sul goal, possiamo sapere con certezza come reagí alla decisione arbitrale il numeroso pubblico presente: i bolognesi invasero il campo ed espressero il proprio disappunto al direttore di gara, con una certa veemenza. Costui, comprensibilmente spaventato, pensò addirittura di annullare la partita, ma alla fine, pur dichiarando che secondo lui la palla era finita in calcio d’angolo, convalidò il goal del Bologna. La compagine rossoblú riuscí successivamente a segnare la rete del pareggio. Questa assurda partita finí pertanto sul 2 a 2, non vennero disputati i tempi supplementari (come prevedeva il regolamento) perché i giocatori del Genoa si rifiutarono. Fu necessario giocare altri due spareggi prima che il Bologna riuscisse a prevalere, laureandosi campione della Lega Nord. A quel punto, vinse senza affanno contro l’Alba Roma (antenata della AS Roma di oggi) e si laureò per la prima volta campione d’Italia. Ma non se pensate che sia finito tutto lí, vi sbagliate di grossa…

Le contestazioni “postume”

Posso capire che i tifosi e la dirigenza genoana protestassero. Quello che mi fa ridere è che l’abbiano fatto con un ritardo non indifferente: la richiesta formale di assegnazione dello scudetto 1924/25 al Genoa venne inoltrata alla Federazione Italiana Giuoco Calcio nel 1993. Buffo come la situazione calcistica fosse ormai assai differente: il Genoa lottava per non retrocedere in serie B (riuscendoci, pur con qualche affanno), il Bologna disputava ingloriosamente la serie cadetta. Qualcuno, appena udita la notizia, commentò: “Chissà se tra settant’anni ci sarà qualcuno che contesterà gli scudetti attuali di Milan e Juventus”.

In effetti, tutto quanto sembra un po’ assurdo, ne convenite? I bolognesi dissero che non aveva senso reclamare uno scudetto dopo tanto tempo, quali nuove prove o testimoni si potevano addurre? Peraltro, i giocatori del Genoa avevano rifiutato di disputare i tempi supplementari, quindi a rigor di logica avevano dato forfait, e la partita doveva essere assegnata al Bologna a tavolino. Qualche mala lingua arrivò a dire che il Genoa era messo male in classifica, nel 1993, ma essendo quello l’anno del centenario della sua fondazione, stava cercando l’unico metodo per poter arricchire il proprio palmarès, ottenendo truffaldinamente il decimo titolo, che gli avrebbe consentito di appuntarsi immeritatamente una stella sul petto.

Dal canto loro, i genoani tirarono fuori articoli di giornale e dichiarazioni dell’epoca, secondo cui l’arbitro avrebbe convalidato la rete del Bologna per paura: era stato circondato da persone non esattamente calme e posate, peraltro qualcuno avrebbe detto che nel parapiglia i tifosi del Bologna avrebbero preso il pallone, l’avrebbero buttato nella rete e poi avrebbero detto: “Hai visto? La palla è entrata!”. Un dettaglio interessante non passò inosservato: nel pubblico c’era anche Leandro Arpinati, influente gerarca fascista romagnolo e tifoso sfegatato del Bologna, che durante l’invasione di campo avrebbe parlato coll’arbitro, “intimandogli” di riprendere la partita assegnando la rete al Bologna[1]. COMPLOTTO! I bolognesi hanno vinto perché erano fascisti. Cioè, tutti erano fascisti in Italia all’epoca, ma i bolognesi, evidentemente, erano piú fascisti dei genoani.

Un’ulteriore complicazione era dovuta al fatto che lo scontro infinito tra Bologna e Genoa era, di fatto, una semifinale: la vincente avrebbe affrontato l’Alba Roma per il titolo, solo che nel 1993 l’Alba Roma non esisteva piú, quindi che fare? I genoani si dissero disponibili a giocarsi lo scudetto del 1925 contro l’AS Roma, erede dell’Alba. Ecco … Non vi fa ridere ‘sta cosa? Settant’anni dopo due squadre composte di gente che non era nemmeno al mondo all’epoca si disputa il campionato dei loro nonni, e per trovare una delle due pretendenti al titolo si deve prendere una terza squadra che nemmeno esisteva nel 1929! Per fortuna, questo revival di serie Z non si è mai disputato.

Come risolvere, a settant’anni di distanza, questo cold case italico tanto appassionante quanto ridicolo? Ed ecco che salta fuori il nostro (pen)ultimo protagonista.

Il vetusto farmacista

Nel cuore del centro storico bolognese, all’incrocio tra Via Santo Stefano e Via Guerrazzi, v’è una farmacia bellissima. Non si sa se sia la piú antica di Bologna (forse la “Spezieria la Pigna” la supera), ma di certo era già vecchia quando Colombo levò l’àncora. Se vi càpita di passeggiare per la zona, fatevi venire un mal di testa, cosí avrete un pretesto per entrarvi a comprare delle aspirine. Oppure fingete di avere mal di testa, insomma, entrateci e basta, ne vale la pena. Il locale è bellissimo, nella forma attuale dispone di mobilio settecentesco con vasi in ceramica coevi e sulla parete di fondo fa bella mostra di sé un bassorilievo raffigurante l’Annunciazione di Angelo Gabriello Piò, principe degli scultori felsinei del Settecento.

Nel 1919 la farmacia venne acquistata da Mario Santandrea, nativo di Castelbolognese (che malgrado il nome si trova in provincia di Ravenna), il quale la resse fino alla morte, avvenuta nel 1994 alla tenera età di 103 anni. Avete letto bene: 103 anni, e fino a pochi giorni prima della sua dipartita, lo si vedeva regolarmente servire i clienti nella sua farmacia[2].

La sua lunga vita è costellata di eventi interessanti. Fu un fervente socialista della prim’ora, tant’è che subí persino delle discriminazioni durante il fascismo (gente in camicia nera gli ha persino invaso la farmacia e l’ha preso a manganellate). Si adoprò perché venisse riorganizzato l’Ordine dei Farmacisti, abolito durante il Fascismo, all’alba della liberazione. Per il suo centesimo compleanno, l’allora sindaco di Bologna, Renzo Imbeni, lo insigní del Nettuno d’Oro, massima onorificenza del capoluogo felsineo. Tra le tante cose, è stato anche un appassionato di sport, sia a livello di pratica personale che di tifoso e dirigente. Mi fermo qui, se volete saperne di piú, vi lascio in calce un riferimento bibliografico.

Ma che cosa c’entra, vi starete chiedendo, questo longevo intellettuale e sportivo cólla nostra storia? C’entra, c’entra… Nel 1993, quando il Genoa avanzò le proprie rivendicazioni sullo scudetto del 1925, si passarono in rassegna gli archivî e i quotidiani dell’epoca per trovare qualche prova, e naturalmente si fecero ampie ricerche per vedere se c’era qualche testimone oculare. Dopo settant’anni, chi mai poteva essere ancora al mondo? Ebbene, uno c’era. Se siete particolarmente perspicaci, avrete intuito che si trattava proprio del centoduenne Mario Santandrea.

Fa un po’ ridere, giusto? Un signore si oltre cent’anni che si reca a testimoniare davanti alla giustizia sportiva. Eppure, era ancora lucidissimo, oltretutto era l’unico testimone oculare, per cui la sua parola aveva un grande valore. Santandrea smentí le accuse dei genoani, affermò che la palla era entrata in rete e che l’arbitro non era stato intimidito dai fascisti. Quest’ultimo dettaglio è particolarmente rilevante: Santandrea era un antifascista, quindi avrebbe avuto tutto l’interesse nello scaricare ogni colpa possibile addosso agli odiati nemici da cui tanto aveva subito personalmente. Se persino lui li assolveva, era evidente che non c’erano state pressioni politiche sul direttore di gara.

Il verdetto fu scontato: lo scudetto rimase al Bologna e Mario Santandrea, quasi che fosse sopravvissuto tanto a lungo perché aveva una missione da compiere, l’anno seguente venne a mancare. (Molto per inciso: le polemiche su quello scudetto sono tornate fuori nel nuovo millennio, ne ha parlato persino il quotidiano britannico The Guardian, ma non mi interessano, qui parlo della storia di Santandrea).

Storiella sapida, ne convenite? Ebbene, v’è un ultimo dettaglio insignificante che desidero raccontarvi. Un bel giorno raccontai a mio padre la storiella della deposizione di quel farmacista. Non appena comprese di chi si parlava, mio padre fece un’espressione poco allegra e proruppe in un: “Quello lí era uno…”, ecco, perdonatemi, ma non posso ripetere quanto disse mio padre, se non altro per rispetto nei confronti di un defunto. Ma perché mio padre ce l’aveva tanto con quell’individuo? Venni a sapere che, piú o meno nel periodo in cui il Bologna era “uno squadrone che tremare il mondo fa”, ovvero all’inizio degli anni Sessanta, mio padre, allora giovincello, era entrato in quella farmacia per comprare una confezione di preservativi.

Vi confesso che sentire questa storiella mi fece una strana impressione. Certo, mio padre deve pur essere stato un giovincello in subbuglio ormonale e, prima di fidanzarsi con mia madre, presumo che si sia legittimamente divertito. È normale, però… però fa impressione quando pensi che è tuo padre. Comunque, mi disse che in quegli anni non c’erano le macchinette che erogano i preservativi “anonimamente”: entravi in farmacia e, quand’era il tuo turno, dicevi a bassa voce al farmacista che cosa desideravi e questi provvedeva a fornirtelo con discrezione. Ebbene, quel giorno mio padre chiese il prodotto in questione, e il farmacista disse, a voce troppo alta per non essere sentita dai numerosi clienti presenti nella farmacia: “Noi non teniamo quella roba!”. Mio padre se ne uscí, rimase un po’ imbarazzato per circa cinque minuti e poi cercò un’altra farmacia; non gli ho mai chiesto come sia andata la serata, ma presumo che tutto si sia risolto per il meglio.

Certo che fa impressione: la stessa persona è stata uno stimato professionista per molti, un pericoloso sedizioso per i fascisti, un eroe per i tifosi del Bologna e un… ehm… una persona eccessivamente severa per mio padre. Vabbè, consoliamoci: lo scudetto è rimasto al Bologna, l’attempato farmacista si è reso inaspettatamente utile alla tenera età di 103 e mio padre… beh, non so che cosa fece mio padre, ma sono convinto che sia andata a finire bene pure a lui.

Approfondimenti

Qui trovate la biografia dettagliata di Mario Santandrea:

Sulla contestatissima finale di Lega Nord tra Bologna e Genoa la bibliografia è sterminata. Vi cito solo un articolo recente, gli altri cercateli da soli:

https://www.ilmessaggero.it/sport/calcio/bologna_e_genoa_litigano_per_lo_scudetto_del_1925-4076812.html?refresh_ce Banalmente, potete ricorrere a Wikipedia, leggendo la voce “Scudetto delle pistole”.


[1] Questo fatto, per quanto dichiarato da alcuni tifosi genoani, non è mai stato provato, anzi, il fatto stesso che tifosi diversi abbiano identificato persone diverse che avrebbero parlato coll’arbitro durante l’interruzione della partita dimostra che sono testimonianze poco attendibili

[2] Alla sua morte rilevò l’attività il figlio Giorgio, vispo ottantenne che mi vendette delle aspirine, raccontandomi di suo padre. Alla morte di Giorgio, la farmacia è stata rilevata dal di lui figlio Luca, quindi i Santandrea reggono quella rivendita di medicinali ininterrottamente ormai da oltre un secolo.

Mary la Tifoide, ovvero “làvati le mani ché è pronto da mangiare”

Cari Tutti,

lo so, è da tantissimo che non scrivo, ma abbiate pazienza, c’ho da lavorare, tengo famiglia… E in ogni caso, non devo rendere conto a nessuno di quello che scrivo qui, è il mio blog, e che diamine! Comunque, lieto di risentirvi.

Dato che è appena cominciato un nuovo anno, voglio farvi gli augurî con una storiella sugosa (in tutti i sensi, capirete perché), quella di Mary Mallon, meglio nota come Mary la Tifoide. Mi si consenta però di introdurre l’argomento con un aneddoto.

A diciassette anni vivevo negli Stati Uniti. Una sera, mentre mi trovavo a casa di amici, dissi che mi sarei assentato per un minuto per recarmi ai servizî igienici. Feci appena in tempo a fare il primo gradino per salire al piano superiore, quando la sorella del mio amico/proprietario di casa disse:

“Perché sali? C’è un’altra toilette qua sotto”.

“No, in quella non c’è il lavandino” (ero già stato ospite in quella casa).

“Beh, a che cosa ti serve il lavandino?”

Quell’ingenua domanda mi lasciò di stucco. Già in America non esiste il bidet, possibile che quella ragazzina nemmeno si lavasse le mani una volta espletate certe funzioni corporali?

Sí, era possibile. Erano gli anni Novanta, ma questa “tradizione” a stelle e strisce era ormai antica e ben radicata. E aveva già mietuto numerose vittime, come testimonia la storia di Mary Mallon.

Mary (1869-1938) era un’irlandese di umilissime origini che, ancor giovincella, si trasferí a New York per cercare condizioni di vita migliori. Venne descritta come “una donna alta 1 metro e 60 circa, bionda, con occhî azzurri, colorito sano e una mascella pronunciata”. Nella metropoli statunitense venne assunta a servizio presso svariate famiglie agiate e, pare, ottenne il plauso e la stima dei suoi datori di lavoro, dato che si rivelò essere una cuoca fantastica. Il problema, a loro insaputa, è che Mary aggiungeva spesso un ingrediente segreto alquanto discutibile ai suoi manicaretti (cominciate a inorridire, vero?).

Immagine (di pubblico dominio) pubblicata nel 1909 in The New York American.

Mary lavorò per almeno sette famiglie agiate. In ognuna di esse si diffondeva la febbre tifoide che, in alcuni casi, uccideva persino qualcuno dei membri della famiglia o degli altri domestici. Ogni volta, Mary cambiava cognome e si trasferiva presso un’altra famiglia, e il copione si ripeteva. Sto forse insinuando che Mary fosse un’avvelenatrice seriale? No. O almeno, non coscientemente. Ma andiamo con ordine.

La malattia

Per chi non lo sapesse, la febbre tifoide è una malattia intestinale molto seccante, seppure con un basso tasso di mortalità (10-20%, soprattutto soggetti debilitati), veicolata dal batterio Salmonella typhi, che si trasferisce attraverso le feci. In altre parole, un soggetto malato o un portatore sano possono contagiare se qualcuno viene a contatto col materiale fecale che fuoriesce dal suo corpo. Per questa ragione, la malattia era molto diffusa anticamente, quando le condizioni igieniche erano pessime e gli impianti fognarî erano carenti o insufficienti, e ancora oggi è diffusa nelle zone piú disagiate del mondo, mentre nei Paesi abbienti è ormai una rarità. I sintomi della malattia sono dolore addominale, cefalea, eruzione cutanea e febbre altissima (anche 40 gradi centigradi e piú), quest’ultima può persistere anche per due settimane. Curiosamente, questa malattia, pur non essendo particolarmente letale, ha mietuto alcune vittime illustri, come ad esempio il Principe Alberto, consorte della Regina Vittoria, e secondo certi studiosi persino Alessandro Magno: ovviamente non abbiamo la cartella clinica o campioni di laboratorio del grande conquistatore, ma la descrizione dei sintomi che ci è stata tramandata coincide molto bene con quella della febbre tifoide, oltretutto il sovrano morí a Babilonia, città nota per un impianto fognario che inquinava il fiume Eufrate (da cui si attingeva l’acqua potabile). Non mi sto inventando io queste osservazioni, eh!, ne ha trattato il New England Journal of Medicine (probabilmente la rivista medica piú prestigiosa al mondo) in un articolo del 1998, che sto cercando di procurarmi (non cambiate canale…).

Sebbene la malattia sia presente da migliaia di anni (e sia una malattia esclusivamente umana, non si trasmette agli animali, caso abbastanza insolito), l’agente eziologico venne identificato dal medico francese Widal soltanto nel 1896, quindi pochi anni prima che cominci la nostra storia.

Torniamo quindi a Mary e all’inizio del XX secolo. All’epoca a New York era possibile trovare casi di febbre tifoide, ma di solito in case e rioni poveri. Mary, invece, lavorava sempre in case di ricchi, quindi pulite e ben tenute. Com’è riuscita a trasmettere la malattia? È presto detto: quando andava in bagno, la signora non si lavava le mani, poi tornava con solerzia alle proprie mansioni e usava quelle stesse mani per preparare impasti, ripieni, torte e quant’altro. Capito qual era il suo ingrediente segreto? Lo so, siete disgustati. Anch’io, a dire il vero, ma bisogna capire che all’epoca il concetto di “igiene” era diverso rispetto ad oggi, soprattutto tra i proletarî. Se anche nelle case dove lavorava l’acqua corrente c’era, lei, proveniente da un’umile famiglia irlandese, non era abituata a lavarsi spesso e pulirsi le mani dopo certe attività non le passava nemmeno per l’anticamera del cervello.

Per darvi l’idea dell’entità del problema, sappiate che nel solo 1906 a New York la febbre tifoide causò la morte di 639 persone. Nel suo piccolo, Mary diede un contributo niente male: tra il 1900 e il 1906 contagiò persone in sette famiglie; nel 1906 venne assunta presso una famiglia benestante di Manhattan, dove svariate persone si ammalarono, anche in maniera grave, e un’altra dipendente (la lavandaia) morí di febbre tifoide. Quello stesso anno, ad agosto, venne assunta dal banchiere Charles Henry Warren e dopo appena tre settimane alcuni abitanti della casa, tra cui, la figlia del suo titolare si ammalarono gravemente. A quel punto, senza preavviso, Mary abbandonò la famiglia e cercò un altro lavoro. Si noti questa condotta: Mary certamente non conosceva il batterio che provoca la malattia, ma ormai doveva aver capito che lei c’entrava cólla malattia, ormai era in qualche modo “consapevole”, e quindi, in una qualche misura, “colpevole”.

Il proprietario della casa dove viveva il banchiere volle andare a fondo e incaricò l’ingegner George Soper di condurre indagini approfondite per capire l’origine della malattia. Se avete già letto il mio articolo su John Snow (se non avete fatto, cliccate sulla lente di ingrandimento e cercatelo, non mi metto il link diretto per non incoraggiare la vostra pigrizia), saprete che da meno di un secolo era nata l’epidemiologia come la conosciamo oggi, e che per scoprire l’origine di un’epidemia ci vuole una sorta di “Sherlock Holmes in camice bianco”. Soper aveva già indagato altre malattie infettive negli anni precedenti, tanto da guadagnarsi il soprannome di “combattente delle epidemie”; costui esaminò con molta attenzione la casa e l’impianto fognario, senza trovare nulla di sospetto. Interrogò tutti i membri della famiglia e si fece fornire un elenco di tutte le persone che avevano frequentato quella casa negli ultimi dieci anni (non c’è che dire, era una persona scrupolosa). Li andò a cercare uno ad uno, cancellandoli dalla lista a mano a mano che li escludeva come potenziali colpevoli. Infine, si accorse che non riusciva a trovare soltanto un nome tra quelli sulla lista: la cuoca Mary, assunta quell’anno per breve tempo e divenuta improvvisamente irreperibile. Soper intuí anche che la malattia potesse essere stata veicolata dal gelato con pesche fresche, che la domestica preparava ogni domenica: non essendo un cibo cotto, le probabilità di veicolare il batterio erano maggiori. Col senno di poi, dobbiamo dire che Soper aveva avuto un’intuizione di quelle che fanno impallidire il Tenente Colombo.

Caccia a Mary Mallon

Qui la vicenda diventa davvero degna di un poliziesco. Soper non riusciva a trovare quella cuoca sospetta, dato che ella continuava a cambiare nome e che era furba, pertanto monitorò i quotidiani locali e, ogni volta che leggeva di un caso di febbre tifoide, si recava immediatamente sul posto per vedere se c’era una cuoca in quella casa che corrispondesse alla descrizione di Mary. Le ricerche andarono avanti ben quattro mesi, finché, un bel giorno, finalmente la trovò.

Soper l’andò a trovare nella cucina dei suoi nuovi datori di lavoro, cercando di essere gentile, di farle capire che voleva aiutarla… Le chiese di poter prelevare dei suoi campioni di sangue, urine e feci per fare delle analisi. La reazione della mansueta Mary non si fece attendere: impugnò un grosso forchettone per gli arrosti e inseguí minacciosa il povero Soper che, capendo l’antifona, se la diede prontamente a gambe.

Nei giorni seguenti, Soper cercò di cambiare strategia: indagò sulla donna e scoprí che viveva in un modesto appartamentino in affitto assieme ad un uomo, Breihof, a quanto pare l’unico amore che Mary ebbe in vita. Lei si prendeva cura di lui, era amorevole… E lui doveva proprio ricambiare, dato che appena Soper gli chiese di poter entrare nella loro casa, (pare corrompendolo con denaro o alcool, o tutti e due, non è chiaro) questi accettò immediatamente. Ah, l’amore… Mary tornò a casa, trovò Soper a casa sua e andò su tutte le furie. Scacciò Soper a forza dall’appartamento, non è dato sapere cosa sia successo poi quella sera, una volta rimasta a casa sola col suo grande amore.

Non dandosi per vinto, a quel punto Soper si recò presso le autorità sanitarie di New York e chiese che se ne occupassero loro, emettendo un ordine a nome di Mary, che l’obbligasse a fornire i suoi fluidi corporali. La cuoca ricevette la visita della dottoressa Baker, provvista di un regolare mandato. Tutto invano: Mary rifiutò persino di aprirle la porta. Per inciso: il padre della dottoressa Baker era morto proprio di tifo e la dottoressa aveva deciso di dedicare tutta la propria vita alla prevenzione delle malattie infettive; scrisse anche un libro al riguardo, fu un personaggio interessante, ma magari ve ne parlerò in un’altra occasione.

Il giorno seguente, non avendo altra scelta, le autorità decisero di usare le maniere forti: la dottoressa tornò in compagnia di quattro agenti di polizia. Vedendoli arrivare, Mary, a dispetto della sua mole corpulenta, da autentica cuoca di una volta (ah, quanto mi piacciono quelle signore ben messe col copricapo bianco e il grembiule! Mi ricordano le “zdaure” bolognesi che vedevo da pargolo, e che ormai si trovano soltanto in pochi ristorantini di provincia), balzò fuori da una finestra, scavalcò una recinzione e scappò. La inseguirono, ore dopo la trovarono nascosta in una toilette esterna di un cortile, dove rimase assediata fino a quando riuscirono a tirarla fuori e a trascinarla via.

La reclusione

Per qualche tempo Mary venne tenuta in ospedale, dove fu sottoposta a tutti gli esami medici del caso. Nel 1907 venne trasferita in una struttura su North Brother Island, un’isoletta newyorkese che s’affaccia su Manhattan, luogo ideale per isolamenti e quarantene. Non veniva trattata male, basti pensare che la fecero alloggiare in una piccola villetta, tuttavia c’è da rilevare una cosa: anche se effettivamente era un personaggio “pericoloso” (come si appurò in séguito), non era stata formulata alcuna accusa formale nei suoi confronti, non era stata né processata, né condannata, per cui, tecnicamente, il suo isolamento fu un abuso.

In quel periodo, peraltro, era comparso il suo ritratto su un quotidiano locale e si era attivata la macchina dell’infamia. All’epoca non c’era Internet, ma la gogna mediatica funzionava eccome. I giornali l’avevano ribattezzata “Typhoid Mary”, ossia “Mary la Tifoide” e tutti la consideravano un pericolo pubblico.

Sorge spontanea una domanda: Mary era davvero pericolosa? Purtroppo, sí. È il primo caso accertato di portatrice sana o di “distributore di germi” (come si diceva allora) di febbre tifoide. Nell’intestino di certi individui (ne identificarono almeno altri 50 nello Stato di New York, negli anni seguenti), pur non essendo malati, continua a prosperare il batterio, quindi le loro feci rimangono un veicolo per il contagio. Nel caso di Mary, si sa che sua madre aveva contratto la malattia durante la gravidanza, quindi è verosimile che abbia trasmesso il batterio alla figlia in forma cronica. E intendo davvero “cronica”: quando Mary morí, decennî dopo, fu appurato che le sue feci erano ancora contagiose. In altre parole, questi portatori sani rimangono infettanti anche per tutta la vita.

La seconda domanda che ci può sorgere è la seguente: ma non si poteva trovare un altro modo per eliminare o almeno minimizzare il pericolo, anziché imprigionare una donna che, almeno coscientemente, non aveva fatto nulla di male, e che peraltro cucinava da Dio? In effetti sí. Dopo due anni di battaglie legali, Mary l’ebbe vinta. Come spesso accade in questi casi (il COVID ce l’ha insegnato di recente), quando una malattia è sulla bocca di tutti e ne parlano i giornali, tutti sono molto rigidi e impietosi, ma dopo un po’ di tempo, quando ormai i casi sono pochi e i giornali non ne parlano piú o quasi, la gente si dimentica. Cosí accadde anche questa volta. L’avvocato di Mary insistette, insistette… Nel 1910, complice anche un cambio al vertice delle strutture sanitarie locali, Mary venne liberata. Tuttavia, le fecero giurare di trovarsi un altro lavoro, che non prevedesse il contatto col cibo.

Promesse da marinaio…

Questa sarebbe dovuta essere la fine della storia. Ma secondo voi, Mary ha rispettato il giuramento? Ovviamente no. O meglio, inizialmente ci ha provato, è stata assunta come lavandaia, ma poi, si sa, a fare la lavandaia si fa fatica, la sua paga era inferiore, eppoi non poteva piú vivere nelle case dei ricchi, godendone in qualche modo dei confort… E per di piú proprio in quei mesi il suo storico amante, quello che aveva fatto entrare Soper in casa loro per un goccetto di alcool, s’ammalò e morí. Al di là dello shock emotivo, Mary, che già covava un certo risentimento nei confronti dei medici, rilevò che nessun dottore era stato in grado di salvare il suo amato, quindi probabilmente maturò l’idea di non sottostare piú a quella che probabilmente considerava una “dittatura sanitaria” (espressione che uso in modo non casuale). Un bel giorno, la donna cambiò nuovamente nome (Mary Brown, poi altri ancora) e riprese la sua vecchia professione, lavorando, nell’ordine, in: un hotel, un ristorante di Broadway, una stazione termale e una pensione. Si noti: tutti luoghi estremamente trafficati, dove il rischio di contagiare qualcuno era massimo.

Per qualche tempo le andò bene, ma poi, nel 1915, a New York scoppiò un’altra epidemia di febbre tifoide, stavolta ancora peggiore delle precedenti, in particolare si ebbero 25 contagiati tra i degenti e il personale di un ospedale. Le descrizioni della cuoca di quell’ospedale coincidevano perfettamente con quelle della nostra vecchia conoscenza. Riuscite a indovinare? Ecco, Mary in quel periodo stava cucinando e spargendo la malattia persino in una struttura sanitaria, ironia del Destino!

La polizia s’attivò e lanciò una vera e propria caccia all’uomo. O meglio, una caccia alla donna. Trovato il suo nascondiglio, gli agenti, armati e in massa, lo circondarono (mi ricorda vagamente il film “The Blues Brothers”…). Questa volta, Mary comprese di non avere scampo e si arrese senza opporre resistenza.

Mary la Tifoide venne condotta nuovamente a North Brother Island, dove trascorse il resto della vita. Venne a mancare ventitré anni piú tardi, nel 1938, al suo funerale presenziarono ben nove persone e sull’isola si trova la sua umile tomba, dove sotto il nome c’è scritto soltanto “Gesú abbia misericordia”. Onestamente non sono in grado di dire se il Redentore abbia avuto misericordia, ma di certo i servigi di Mary non furono misericordiosi nei confronti delle numerose persone a cui preparò i suoi manicaretti durante la sua vita. Sono stati accertati trentatré casi di contagio e tre morti, ma si tratta certamente della punta dell’iceberg, anche perché di molte identità fittizie di Mary nulla sappiamo, né è possibile ricostruire tutti i suoi movimenti e i suoi datori di lavoro.

Mi si consentano alcune riflessioni finali:

1. Non sono contento che la signora abbia trascorso cosí tanti anni su un’isoletta, ma mi chiedo: perché non ha rispettato le semplici regole che le avevano imposto? Doveva per forza fare la cuoca? Ormai era stato appurato che lei era portatrice della malattia e, anche se lei negò strenuamente di esserlo (e probabilmente era sincera, in fondo era un’ignorante, non riusciva a capire che una persona sana potesse infettare), le sarebbe costato poco astenersi dal lavorare nel settore della ristorazione; se prima del suo “arresto” poteva farmi pena, dopo, a mio avviso, è diventata una bella delinquente.

2. A maggior ragione, considerando che era consapevole di essere pericolosa, le ci voleva tanto a lavarsi le mani scrupolosamente prima di toccare gli alimenti?

3. Ciò detto, Mary non era un “mostro”: era una donna ignorante e testarda di inizio Novecento. Le autorità hanno agito in maniera energica, e certamente hanno posto fine ai suoi contagi, tuttavia mi chiedo se non sarebbe stato possibile trovare un’alternativa: in fondo, un quarto di secolo segregata su un’isoletta è una pena molto pesante da scontare. Se le autorità newyorkesi le avessero trovato un lavoro adeguato (non la lavandaia per pochi spiccioli) e/o magari le avessero fornito un piccolo assegno di accompagnamento, purché non lavorasse piú a contatto cógli alimenti, forse sarebbe stato meglio.

4. Ma è possibile che a tutt’oggi in America e in tanti altri Paesi del mondo non esista il bidet e che la toilette e la sala da bagno siano separate, impedendoti di fatto di lavarti le mani dopo aver espletato certe funzioni corporali? Noi italiani saremo anche un popolo pieno di difetti, ma ogni volta che penetro all’interno del mio bagno mi rallegro d’esser nato in questo Paese e in quest’epoca storica. Viva l’Italia!

Approfondimenti

https://www.nationalgeographic.it/storia-e-civilta/2020/03/mary-la-tifoide-la-vita-in-quarantena-di-una-donna-che-ha-contagiato-oltre-50-persone

Interessante articolo del National Geographic (in italiano).

Questo articolo, invece, in una qualche misura difende Mary, affermando che non era un mostro.

Moore, Jonathan J. (2020): Malattie terribile e atroci cure. La storia della medicina attraverso i secoli. Modena, Logos.

Libro molto interessante sulla storia della medicina, tratta di Mary la Tifoide e della febbre tifoide alle pagine 196-201.

A questo indirizzo trovate, in formato PDF, l’articolo scritto da Soper in persona (in inglese), che descrive il curioso caso di Mary Mallon.

Anthony Bourdain, Il segreto di Mary la cuoca; traduzione di Nello Giugliano. Roma: Donzelli, 2011.

Onestamente non ho letto questo libro (che però intendo procurarmi), ma so che è una versione “un po’ romanzata” della caccia a Mary da parte di Soper.

Elogio del caricatore di porto

In questo periodo funestato da attacchi sempre piú veementi e impietosi ai sacri valori della famiglia (tradizionale, estesa o chiunque completi l’espressione come piú gli aggrada), in cui ognuno è chiamato a rimboccarsi le maniche e schierarsi alla difesa dell’inclusività e del rispetto prima che gli altri distruggano la civiltà e tutto ciò per cui hanno combattuto e dato la vita i nostri padri e i loro padri prima di loro, ho deciso che non posso piú tacere. Ebbene sí, vincendo la mia atavica ritrosia a trattare di profonde argomentazioni politiche, questa volta prenderò posizione.

Negli ultimi anni abbiamo visto un enorme, continuo e finanche petaloso (petaloso? Ma sí, va sempre bene) florilegio delle forme arzigogolatamente virtuosistiche, immemori di qualsivoglia regola grammaticale e prive di qualsiasi rispetto per il tanto prezioso dono della sintesi (dono importante, potente, determinante, giacché è indiscutibilmente, innegabilmente vero che allungare le frasi con inutili e finanche vani sinonimi e ripetizioni ridondanti, oltreché fastidioso, distoglie dal senso del discorso, trasformando ogni capoverso in una sorta di giungla labirintica, ove ben presto non è piú possibile districarsi e non si sa mai quando e donde se ne sbucherà fuori, e forse è giunto il momento di chiudere la parentesi).

Quante volte abbiamo visto espressioni del tipo “Comitato per la Difesa dei Diritti dei Bambini e delle Bambine”? Sublime: se avessero scritto solo “… diritti dei bambini”, avremmo pensato tutti che soltanto i maschietti avessero diritti tutelabili, anziché tutti gli individui al di sotto di una certa età. Valeva proprio la pena concepire una siffatta denominazione.

Analogamente, l’italica scrittura, già dotata di accenti acuti, gravi, circonflessi e di dieresi (sebbene la stragrande maggioranza della popolazione dello Stivale ne sia beatamente all’oscuro), ha provveduto a munirsi d’un’ulteriore lettera, la famigerata “schwa”. Poco importa che nessuno sappia come si pronuncia o che il ricorso sistematico alla schwa alla fine della parola conferisca alla pronunzia un accento vagamente partenopeo: vogliamo mettere il senso di inclusività di un’espressione come “Buongiorno a tuttƏ”. Se poi proprio non ci piace la forma della lettera finale, possiamo sempre optare per il piú elegante ed equivalente asterisco, “Buongiorno a tutt*”, chi potrebbe mai obiettare alcunché?

Mettiamocelo in testa: occorre essere pronta ad accogliere tutti (o tutt*?) a braccia aperte. Tant’è che persino la comunità LGBT ha dato il buon esempio, dotandosi di ulteriori lettere dopo le quattro storiche. Quando poi finalmente la sigla in questione avrà incorporato l’intero alfabeto (comprese maiuscole e minuscole), avremo finalmente raggiunto il sogno di includere veramente tutt*. In cosa, lo ignoro, ma intanto li/le avremo inclus* tutt*.

Ed ecco che giungiamo al cuore del presente articolo: i caricatori di porto. Senza la s- iniziale, ovviamente. Perché proprio questo è il punto: quante volte abbiamo discriminato i caricatori di porto? Si sa che continuamente, in ogni parte del Belpaese, ci si appella agli scaricatori di porto, invocati in una serie di pittoresche espressioni che ne esaltano le doti di trasportatori, bevitori e bestemmiatori. Ma dico io, e i caricatori di porto? Anche loro lavorano cólla medesima assiduità e professionalità, anche loro meritano d’essere menzionati col medesimo rispetto! Eppoi vi immaginate se le navi venissero scaricate, ma nessuno provvedesse poi a riempirne nuovamente le stive? Il commercio marittimo mondiale languirebbe, patirebbe. Orsú, dunque, diamo ai caricatori quel ch’è dei caricatori!

Pertanto, d’ora in poi, ogni volta che qualcuno di voi dirà una frase tipo: “Mangi come uno scaricatore di porto” o “Bestemmi come uno scaricatore di porto”, l’esorto ad optare per una formulazione piú inclusiva, per esempio: “Bestemmi come un caricatore/uno scaricatore di porto”, oppure, nella forma grafica, di semplificare il tutto cólla gradevole espressione:

Bestemmi come un(o) (s)caricatore di porto.

Ma questo non è che un grado intermedio di inclusività: occorre considerare anche il gentil sesso. Sebbene non abbia mai avuto il piacere di conoscere una signora che lavori come (s)caricatrice di porto (a dire il vero non ho mai conosciuto di persona nemmeno un uomo che eserciti detta professione, ma fa nulla), presumo che esistano. O perlomeno che possano esistere. Ergo, dobbiamo accogliere anche loro. La logica conclusione non può che essere una e una sola:

Bestemmi come un/uno/una (s)caricatore/caricatrice di porto.

Non sembra anche a voi un’espressione assai piú sincera, gentile, garbata, genuina, commovente e soprattutto SEMPLICE rispetto a quelle che abbiamo usato e abusato per tutta la vita? Mi auguro che detta proposta venga accolta benignamente e che abbia la rapida e capillare diffusione che merita. Vi informo altresí che sto lavorando ad analoghe proposte inclusive anche per le categorie dei prostituti e delle prostitute. Non mancherò di tenervi aggiornati.

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